zia Pietrina e zia Michelina
Le mie zie, sorelle di mio padre, le ho conosciute già anziane. Sono state attive fino a tarda età, da piccola mi sembravano un po’ strane, non capivo perché, non era soltanto per la loro età, ma per la loro appartenenza ad un’altra epoca, o meglio ad altre epoche, almeno due: quella in cui si erano sposate (gli anni Trenta) e quella in cui avevano comprato le ultime cose (gli anni Cinquanta), sembravano dunque fuori moda per tutto, per i vestiti che indossavano, per la pettinatura, i mobili che avevano, gli oggetti che si trovavano nelle loro case, i troppi quadri delle persone a loro care e scomparse, le borse da passeggio che avevano, la cipria rossa sulle guance. Io non vedevo altre persone andare in giro così, se non qualche stravagante, ma non era il loro caso.
Chi poteva vestirsi come loro o non c’era più, o se c’era, rimaneva in casa essendo malandato, loro da un certo momento in poi, da quando io le ricordo, hanno cominciato a conservare, si conservavano.
Ogni cosa nuova era inutile, le uniche cose che contavano erano: le medicine e le preghiere.
All’inizio, essendo noi quattro le ultime nipoti arrivate, dovevamo sembrare loro troppo giovani perché potesse avere un qualche senso il rapporto con noi ma successivamente, essendo le uniche più vicine a loro, dal momento che l’ultima generazione di nipoti prediletti viveva a Roma, abbiamo cominciato ad essere oggetto delle loro attenzioni, forse anche perché sentivano di doverci proteggere così come facevano con mio padre.
A mia madre il disordine della loro casa ed in genere la loro trasandatezza era insopportabile e se le facevamo notare che era dovuta all’età ci diceva che no, erano proprio loro così, aveva conosciuto tante altre persone anziane ma che sapevano tenere la casa come uno specchio e dove si sarebbe potuto mangiare per terra.
Era per questo che, quando doveva rimproverarci da ragazze per il nostro disordine, il richiamo al degrado in cui vivevano le zie era inevitabile. Ricordo anche come noi da piccole scherzavamo su questo guardando i loro orecchini ed immaginando quanto sarebbe stato difficile staccarli dalle loro orecchie considerato che non se li erano mai tolti e che essi costituivano probabilmente il punto estremo in cui si fermava il sapone quando si lavavano il viso. Ci penso adesso, ma non c’entreranno con le zie sia il mio disordine che la mia tendenza a conservare tutto? Per me questo è un modo per non separarmi dalle cose, anche se contrastato dalle mie manie di pulizia e quindi dalla voglia di separarmi dalle cose.
Ma queste sono contraddizioni che a loro sarebbero risultate assurde ed incomprensibili, davvero di un’altra epoca.
Zia Pietrina era a capo di un regime femminile che c’era nella famiglia di mio padre, tanto che gli stessi mariti delle zie erano conosciuti con il loro cognome da signorine.
Mia madre non perdonava a zia Pietrina di decidere per gli altri, indipendentemente dalla loro volontà, soltanto perché lei per istinto di protezione lo riteneva indispensabile. Questo era accaduto quando era capitata a Maglie, piccolo paese del Salento dove mio padre e mia madre vivevano appena sposati, e nel giro di un pomeriggio li aveva portati via da lì, togliendo così a mio padre l’orgoglio di potercela fare da solo. La stessa determinazione e spregiudicatezza zia Pietrina l’aveva quando, trovandosi in difficoltà qualcuno dei suoi fratelli, all’insaputa degli interessati imperversava o – come direbbe mia madre- spadroneggiava nelle loro case portando via, per venderli, gli ori di famiglia o comunque tutto ciò che si poteva vendere. Per questo motivo a mia madre anni dopo è capitato di vedere il suo anello di fidanzamento ricomparire, indossato da una parente della persona cui era andata per fare visita.
Non le è mai passata la rabbia per questo.
Ma non era l’unica vittima di queste iniziative, zia Michelina aveva subito spesso questo tipo di perdite, in particolare di spille, anelli e collane e poiché teneva molto a questo genere di ornamenti, erano ricorrenti i suoi rimproveri rivolti alla sorella per le sue incursioni.
Prima di abitare insieme a zia Pietrina, zia Michelina aveva abitato con suo marito, lo zio Michelino. Ricordo di quella casa i mobili della cucina perché erano rossi, di ciliegio, le coperte di raso dipinte a mano dalla zia con una tecnica difficile che si compiaceva di conoscere -la pirografia- gli arazzi che rappresentavano Ben Hur mentre trascina vittorioso la biga nell’arena. Poi il tabacco da fiuto che faceva starnutire, era lì nella stessa tabacchiera da quando, in altri tempi, si offriva agli uomini nei salotti. Ad attirare la mia attenzione c’erano anche le gabbie con gli uccellini ed i pappagallini, qualcuno era ammaestrato e veniva lasciato libero di girare per un po’in cucina. Zio Michelino aveva un carattere allegro e di compagnia, ognuna di noi sorelle, quando la sera lui passava da casa nostra prima di andare al bar, sperava di essere quella che lui avrebbe scelto da portare a passeggio, ma spettava sempre a Pina perché era la più grande, anche se allora non ero tanto convinta di questa spiegazione…ed i miei sospetti aumentarono quando, sempre a Pina, lui regalò il primo album di paesaggi a colori che io avessi mai visto nella mia vita, era un album meraviglioso che non saprei davvero come descrivere, ma toccò a Pina: era anche vero che lei sapeva disegnare.
Quando anch’io cominciavo a diventare grande, non vidi più zio Michelino, chiesi di lui a mia zia e lei mi disse che era a Roma dove lo stavano curando ma da lì non ritornò, “peccato, era così simpatico!”, non chiesi altro anche se continuai a pensare a lui per un po’ con nostalgia, ma questo non lo seppe nessuno. Ci fu comunque un cambiamento: zia Michelina andò a vivere in una casa comunicante con quella di zia Pietrina e suo marito, zio Toto. Avevano ricavato, infatti, in una parete tra le due case un’apertura grande quanto una porta e vi avevano appesa una tenda che metteva in comunicazione le stanze da pranzo delle due zie. Questo perché zia Michelina non si sentisse sola. Nella casa comunicante io, da quando avevo sei anni, ci andavo spesso per vedere cosa faceva zia Michelina.
Lei è l’unica zia che ci ha raccontato le favole che, grazie al suo bel modo di parlare, sapeva recitare molto bene: con il tono dolce e sereno della sua voce creava l’atmosfera per noi che l’ascoltavamo la sera, vicino al braciere. Personaggi e scene erano descritte nei particolari e soprattutto li faceva a volte parlare in versi, anche la morale ce la presentava in rima, pure quando a me sembrava un po’ strana e inopportuna soprattutto se riferita ai personaggi altolocati delle favole.
Una di queste favole raccontava infatti di un re che, avendo chiesto ai suoi amici principi e sovrani più sapienti quale fosse la cosa più importante per la salute di una persona e non avendo nessuno il coraggio di dare la risposta giusta – trattandosi del volgare gabinetto – di fronte al loro raccapriccio s’indispettì e fece loro uno scherzo.
Li invitò ad una festa nel suo castello, offrì loro da mangiare e da bere in abbondanza e li ospitò in stanze dove non c’era il “bagno”, quando la notte principi e principesse si trovarono ad aver bisogno del bagno senza riuscire a trovarlo, la loro disperazione fu tale da dover dare ragione al re.
Così mia zia aveva trovato un modo figurato e pedagogico per far comprendere ad una bambina piccola come non fossero trascurabili certe funzioni fisiologiche del nostro corpo, poco signorili ma certamente vitali.
Io, forse non era il momento giusto o forse manifestavo già così i problemi di coesistenza con il mio corpo, ne rimasi molto colpita: mi sembrava incredibile che mia zia avesse raccontato con tanta disinvoltura ed in rima, tra broccati e gioielli, qualcosa quasi di osceno, che ci fa apparire comunque così poco nobili, che può sembrare quasi una specie di imperfezione o di dispetto per il nostro essere spirituale.
Confusione: …e poi cosa c’entravano i nobili con il “bagno”? loro erano creature aeree come i loro profumi…
E cosa c’entravamo noi, creature fatte di distanze, della carta dei libri, delle stoffe del mercato del giovedì e di quelle speciali, per i giorni di festa, che arrivavano dai parenti dell’Argentina…
Le mie scorie erano immagini incrostate, fisse, e quelle solo altre visioni e parole potevano pulirle, cioè toglierle…
Quando penso a zia Michelina in quella casa la rivedo come in una scena di un film di Bette Davis: piccola di statura, con i capelli nerissimi che a boccoli le incorniciavano un viso dalla carnagione chiara e illuminata dagli occhi neri di famiglia. Lei si muoveva in quella casa con un’aria spensierata e inattaccabile cantando le canzoni romantiche del suo tempo, io la vedevo così prima che lei si accorgesse di me, quando aprivo da sola la porta d’ingresso perché lei era diventata sorda e non sentiva più il campanello.
Le sue attività al mattino in casa consistevano nel cucinare e nel sistemare quattro o cinque gabbie di uccellini che ancora teneva, sembrava un gioco per bambine: cambiava la carta di giornale su cui si poggiavano gli uccellini, riempiva con l’acqua la vaschettina pensile e, per farli mangiare -oltre al miglio- tra le assicelle di ferro della gabbia metteva un po’ di savoiardi, ne avanzavano sempre un po’ per me. Il vero spettacolo erano le uova che si erano appena schiuse con gli uccellini piccoli, rosa, quasi trasparenti. Se ho provato della tenerezza da piccola, il mio primo ricordo si riferisce a questo miracolo.
Si sentiva il buon odore del sugo che cucinava, ma la composizione di ciò che preparava era indefinita, mia madre si raccomandava di non mangiare niente preparato o conservato da lei, anche se era stata in altri tempi una brava cuoca.
Nonostante l’età e la sua vista difettosa si avventurava ancora nell’elaborazione di pietanze e dolci al forno dopo aver consultato il suo voluminoso libro de “Il re dei cuochi”. Ma lei, zia Pietrina e zio Toto a quegli esperimenti di cucina erano comunque sopravvissuti.
Mi faceva poi vedere i merletti a tombolo ed a chiacchierino che aveva fatto da giovane, alcuni me li facevo regalare, imparai anch’io a farne qualcuno. Oltre a seguire i miei progressi in queste arti femminili controllava pure la trascrizione, altrettanto artistica e femminile, che stavo effettuando di un suo quaderno speciale: era infatti un oracolo che nel passato si era rivelato prodigioso per il destino di molte sue amiche e la cui consultazione avrebbe potuto in futuro rivelarsi altrettanto decisiva per la mia felicità coniugale.
L’attività di trascrizione doveva svolgersi a casa sua, lei l’oracolo non me l’avrebbe lasciato da portare via, già una volta era successo che per prestarlo a qualcuno l’aveva perso e per fortuna era riuscita a ritrovarlo, adesso non voleva correre più questo rischio.
Riuscii a copiare tutto l’oracolo, dopo di che persi sia il mio che il suo quaderno.
Fu la profezia che si autoavvera o la mia volontà di autodeterminazione? Crescendo diminuì la frequenza delle mie visite: andavo a trovarla per portarle cibi preparati dalla mamma o quando stava male e, quando anch’io partii come le altre sorelle per Modena, andavo dalle zie ogni volta alla partenza ed al ritorno ed allora, quando le guardavo, cercavo di imprimermi in mente la loro faccia perché temevo potesse essere l’ultima volta che le avrei viste.
Quando zia Pietrina e zio Toto si ritirarono dall’attività del loro negozio di merceria, le zie cominciarono a dormire insieme nel letto matrimoniale di zia Michelina anche di giorno, quando erano sveglie pregavano.
Poiché abitavano piano terra, dalla finestra bassa della camera da letto le intravvedevo alla luce della lampada che lasciavano sempre accesa, nel letto grande: piccole, tutte e due con i capelli ancora neri che si abbandonavano al sonno come bambine, nell’attesa che il tempo passasse.
Quando ancora uscivano di casa, zia Michelina capitava ancora a casa nostra magari per qualche modifica a qualche vestito, il cui modello era ormai sempre lo stesso: lo stile dell’abito era quasi all’impero con una cintina di stoffa in vita e due piegoni davanti.
Zia Pietrina, ogni sera prima di rincasare, suonava al nostro portone di casa aspettando che qualcuno si affacciasse da sopra alle scale per dirgli il famigerato “vi siete ritirati ?” cui seguiva come risposta qualcosa di urlato da lontano, non importava il significato delle parole, perché quello era il segnale convenuto -senza scendere tutte le volte fino al portone d’ingresso- per dirle che “eravamo tutti in casa”, quindi in salvo e che, per quel giorno, il pericolo di vita era scongiurato.
La paura del pericolo-malattia-morte era aumentata sempre di più col passare degli anni fino a sfinire le zie a tal punto che, negli ultimi due anni della loro vita, non chiesero più notizie di mio padre. Allora non capivo, adesso mi è chiaro che la paura della risposta era tale che, da un certo momento in poi, hanno deciso di non sapere o almeno non ce la facevano più a portare il peso di questa preoccupazione. Quando papà è morto a loro non è stato detto ma lo hanno immaginato.
Quando si è ammalata zia Michelina, zia Pietrina è ritornata nel suo letto matrimoniale e da allora non l’ha più vista, forse ha solo sentito le grida di sofferenza degli ultimi momenti di zia Michelina che pur avendo pregato per una “buona morte“, si è trovata in mezzo al sangue ed alle escrezioni del suo corpo, senza che le persone presenti potessero avvicinarla a causa dell’odore insostenibile.
Dopo la morte di zio Toto, a novant’anni zia Pietrina anche lei novantenne è rimasta da sola, superstite ormai a tutto, ancora sana e con i capelli e gli occhi neri di mio padre.
Non volendo essere di peso alla mamma si fece portare via insieme ai suoi mobili in un paese vicino dai parenti del marito dicendo: “Hanno preso i mobili ed ora prendono anche me”. Quando Pina e la mamma andarono a trovarla, videro che le avevano tagliato i capelli. Poco dopo morì in una casa e in un paese che non era il suo, tra estranei, lei che non aveva fatto viaggi per non doversi allontanare dai suoi familiari.
E zia Annetta?
Pina ha letto lo scritto sulle zie e mi dice :“E zia Annetta ?”
“ E’ vero “ , ho aggiunto subito,” non me la sono scordata, però è difficile parlare di lei come poi anche di altri”. “Va bene” lei mi dice: “Bisognerà aspettare quando sarà il momento”.
Ma è già il momento.
Non ho dimenticato zia Annetta, un’altra sorella di mio padre, anche se non è facile parlare di lei perché quando l’ho conosciuta era già ammalata . La prima immagine è di lei attaccata al braccio di zia Michelina, non si poteva lasciarla per strada da sola, era come una bambina di cinquant’anni, grassa, con i capelli neri, pari e lisci. Era più giovane delle zie e, dopo la morte di zio Michelino, cominciò a vivere insieme a zia Michelina. Quando era in visita a casa nostra stava sempre seduta fino all’ora del rientro e stava lì per conto suo, quasi dormicchiava come immersa in una sua dimensione.
Lei “faceva i vermicelli “ così dicevamo noi ragazze, perché a testa china fissava lo sguardo sulle dita del pollice e dell’indice che strofinava tra loro, con un movimento continuo in una mano o in tutte e due le mani.
Le parole che le ho sentivo pronunciare oltre il suo torpore sono state “Che, mi devo prendere una pillola?” o quando ci vedeva che provavamo davanti allo specchio qualche vestito che mia madre ci stava cucendo ,“ Uhm, bella vai, una porcheria! “.
Non era poi tanto stupida se si beffeggiava del nostro essere giovani e vanitose schernendoci così. Mia madre diceva che non era stata sempre così, anzi le era sembrata la migliore delle zie, perché la più sbrigativa: per mia madre questa parola, ancor meglio se seguita dal termine pratica, era il massimo degli aspetti positivi individuabili in una donna.
Forse le mie sorelle più grandi ricordano zia Annetta quando ancora era autosufficiente, cioè si muoveva da sola e le andava a prendere da scuola. Non si è mai capito quale fosse la sua malattia, tutto era cominciato quando, in seguito ad un disturbo di tipo nervoso forse depressione durante la menopausa, cominciò a star male.
Le zie, che quando si trattava di salute si spaventavano con niente, la fecero curare. All’epoca -non era come adesso che soffriamo tutti o quasi di disagi psicologici e marciamo a forza di Lexotan – un malessere psichico non classificabile come generico esaurimento nervoso, significava il ricovero in manicomio con le atrocità che ne conseguivano: camicia di forza ed elettroshock, da lì se ne usciva non più come pazzi ma come scemi.
E così fu per zia Annetta che non tornò più come era prima, cioè come la persona che poteva essere e che io avrei potuto conoscere. Da allora fu accudita da zia Michelina che secondo le prescrizioni mediche le somministrava un numero imprecisabile di medicine. Ma le zie e mio padre sotto la loro responsabilità preferirono tenerla a casa piuttosto che lasciarla in una casa di cura. Si ammalò di qualcosa ai polmoni, tanto che quando respirava si sentiva un rantolo, ma anche di questo male non si seppe la denominazione e non è chiaro se per la paura delle zie di nominare soltanto qualcosa di grave riguardante la salute o perché non si era individuata la malattia.
Zia Michelina la portò al mare sperando che migliorasse, ma una delle mie sorelle, che le aveva seguite per tener loro compagnia, ricorda ancora il rumore in tutta la stanza del respiro di zia Annetta. Al mare peggiorò forse perché lo iodio aveva complicato invece di migliorare la situazione: sarà stato per questo che quando zia Michelina durante quel soggiorno estivo con tutte le sue forze cercava di portarla vicino al mare, con altrettanta disperazione zia Annetta recalcitrava.
Se la scena non fosse stata grottesca ci sarebbe stato da ridere a vederle spintonarsi tutte e due piccole, grasse e pesanti e vestite di scuro in riva al mare. Al ritorno a casa zia Annetta fu collegata inutilmente ad una bombola di ossigeno. Morì pochi giorni dopo, lasciando davvero sola zia Michelina.
Nicoletta Nuzzo, racconto secondo classificato al Concorso Terra d’ulivi e pubblicato nell’Antologia Sulla carta del tempo, Edizioni Terra d’ulivi 2015